Quante pretese sulla coscienza dei campioni – Calcio

Quante pretese sulla coscienza dei campioni – Calcio



Cristiano Ronaldo va in Tagikistan. Non gli bastava l’Arabia Saudita. Ora la Champions asiatica lo porta a Dushanbe, dove già si esibì 11 anni fa. Stavolta giocherà con l’Al-Nassr contro l’Istlikol, non esattamente il match del secolo. Il punto, segnato da alcuni osservatori ancora capaci di questi rilievi, è che in confronto al Tagikistan l’Arabia Saudita è un Paese liberale, quasi femminista. E dunque infrequentabile per un campione sportivo? Sopravvive questa pretesa: che la rappresentanza comporti la coscienza, che coloro che sono stati scelti a furor di popolo e di denaro come idoli esprimano anche le migliori visioni della vita comune e quindi s’indignino di fronte alla repressione dei diritti umani e facciano un passo indietro o non ne muovano alcuno. In realtà, proprio perché nominati rappresentanti, riflettono a specchio il comportamento di massa.

Più che l’inarrivabile CR7, l’esempio chiarificatore è Craig Goodwin. Il calciatore australiano alla vigilia dei Mondiali in Qatar apparve in un video, insieme a colleghi e colleghe, per denunciare la costante violazione dei diritti umani da parte del regime di Doha. Questo non gli ha impedito, pochi giorni fa, di accettare un lauto ingaggio all’ombra del regime di Riad, che sta costruendo la sua lega calcistica come strumento di propaganda internazionale. La contraddizione di Goodwin è di fatto condivisa, pressoché universale. Esiste in questo tempo, nei calciatori come in tutti gli esseri umani, una scissione tra la propria entità reale e l’avatar digitale. Il secondo esprime sentimenti, addirittura ideali, corteggia, protesta, si batte per la giusta causa, proietta nell’ambiente per destinazione la migliore immagine di sé che gli riesce di concepire. La prima: Franza o Spagna, basta che se magna; Arabia o Tagikistan, nei lieti calici libiam (con la gazzosa, per rispetto alle locali normative). Da anni ormai le piazze fisiche non vedono un corteo all’orizzonte, ma le bacheche virtuali si affollano di petizioni. Un clic, e all’apericena.

Mentre l’Italia del tennis ri-affrontava il Cile in Coppa Davis è stata rievocata la finale a Santiago nel 1976 che spaccò il Paese riguardo la possibilità del boicottaggio: giocare o no volée con il boia Pinochet? Ricapitasse ai giorni nostri ce la caveremmo con un meme di Sinner (sempreché rispondesse all’appello) che indossa una maglietta rossa (o, più probabile, arcobaleno). E sarebbe il marito della premier, invece del capitano non giocatore a dire che in fondo «quel dissidente fatto a pezzi, siamo sicuri fosse un chierichetto?».



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